Se hai un negozio di abbigliamento prima o poi ti sei posto la domanda come smaltire gli abiti invenduti in modo sostenibile. L’esubero dei capi d’abbigliamento è una criticità che si palesa prima o poi nei negozi ed è figlia del fast fashion, una moda che produce e fagocita prodotti ad una velocità incredibile dinanzi alla richiesta insaziabile del mercato.
Oltre agli abiti invenduti, che rappresentano costi aggiuntivi per le aziende e un maggiore inquinamento per l’ambiente, bisogna poi considerare gli scarti derivanti dalla massiccia produzione “modaiola” che vanno smaltiti e che quindi generano altre spese e hanno un impatto sul pianeta.
In questo articolo analizziamo i motivi per i quali siamo arrivati a questo punto e come gestire in modo oculato gli abiti invenduti.
Indice
Come si è evoluto in peggio il sistema moda
Per creare un po’ di contesto analizziamo cos’è successo in questi ultimi anni. L’industria della moda è tra le più inquinanti al mondo, tant’è il 10% di emissioni di gas sono riconducibili proprio a questo mercato.
Questo succede perché c’è stato un utilizzo sempre maggiore di fibre sintetiche, che velocizzano i tempi di produzione per rispondere alla domanda crescente del mercato. I clienti vogliono sempre più vestiti, ma il problema è che quelli acquistati vengono usati pochissime volte.
Questa eccessiva produzione di capi d’abbigliamento ha aumentato i capi invenduti in magazzino ma i negozi, piuttosto che svenderli, preferiscono smaltirli. Sempre più tessuti arrivano quindi nelle discariche senza essere utilizzati neanche una volta.
Un corto circuito che deve essere fermato per dare una boccata d’ossigeno al nostro pianeta, sempre più malconcio, ma anche per ridurre i costi e gli sprechi che rappresentano per i negozi spese sempre più difficili da sostenere.
Per fortuna la moda ha capito che stava camminando su un percorso senza ritorno e molti brand, anche di fama internazionale, hanno abbracciato un approccio più “green” ed ecocompatibile. Anche i negozi devono imparare ad essere più rispettosi dell’ambiente, partendo da una serie di azioni virtuose che riducono l’impatto ambientale della propria attività e lasciandosi ispirare dalle recenti iniziative per gestire al meglio i capi invenduti.
Come smaltire gli abiti invenduti in modo sostenibile? L’iniziativa Mending for Good
Diverse start-up, aziende e imprenditori hanno capito che bisognava intervenire per frenare il consumismo eccessivo nel mondo della moda e del fashion e così hanno lanciato diverse iniziative molto interessanti.
Tra le più apprezzabili c’è il progetto Mending for Good, firmato da Barbara Guarducci e Alessandra Favilli, che aiuta le imprese a trarre valore dagli scarti di produzione. Brand, cooperative sociali e artigiani specializzati, unendo la loro forza, possono riutilizzare in modo oculato e virtuoso gli scarti di produzione che rappresentano comunque sprechi e costi aggiuntivi.
Il progetto si basa sui cosiddetti scarti pre-consumer, che comprendono scarti di produzione, prove colore o campioni, filati che non entrano in collezione o abiti invenduti che possono essere riciclati.
I designer possono riutilizzare quel materiale, acquistandolo ad un costo più basso, e creare collezioni che assumono addirittura un valore maggiore poiché sono uniche e irripetibili.
La legislazione europea sta comunque lavorando anche per rivedere i processi produttivi e correggere quelle fasi che creano maggiori sprechi. L’obiettivo è quindi produrre di meno, ma anche produrre meglio.
L’upcycling
Un’altra tendenza che sta prendendo piede nel mondo della moda è l’upcycling. Si tratta nella sostanza di un processo di riciclo che utilizza materiale vecchio o usato per creare un prodotto di qualità.
Esistono due tipi di up-cycling:
- pre-consumer: si utilizzano gli scarti per confezionare un capo d’abbigliamento, sul quale si basa il progetto Mending for Good;
- post-consumer: si rivisitano e si modificano vestiti già usati in buone condizioni, tra i quali possono rientrare anche abiti invenduti o di collezioni vecchie.
L’iniziativa dà slancio anche all’economia locale, poiché la produzione che avviene localmente viene affidata a catene di produzione corte e vede il coinvolgimento di artigiani e cooperative sociali. Il prodotto finale non solo è eco-sostenibile, ma è anche unico nel suo genere e quindi acquisisce un reale valore aggiunto. In questo modo puoi anche ridurre i costi di magazzino e gestire al meglio l’inventario.
Il progetto Kool: acquisti a “scatola chiusa”
Un’altra iniziativa molto simpatica è quella della start-up Kool, realizzata da Miriana Massimini e Alice Sebastianis. Partendo dal concetto che dalle crisi possono nascere grandi opportunità, le due co-founder hanno studiato un modo per risolvere le problematiche di vestiti invenduti nei negozi soprattutto nel periodo del lockdown. Così è nato Kool, un progetto finalizzato a dare un’alternativa sostenibile sia ai negozi che ai consumatori.
Con questo progetto ogni negozio può scegliere autonomamente quali vestiti inserire in una “fashion mistery box”, cioè “scatole sorpresa” che vengono aperte alle vendite una sola volta al mese per 72 ore.
Un vero e proprio acquisto a scatola chiusa per l’utente che, dopo aver indicato la taglia e il genere, può comprare la boxe che contiene dai 2 a 5 articoli. Kool svela un unico prodotto per stuzzicare la curiosità dei consumatori, per poi indicare solo la categoria degli altri articoli.
Una soluzione vincente per tutti: i negozi smaltiscono i capi invenduti senza sprechi e i consumatori acquistano prodotti di qualità a prezzi contenuti.
Foto: Pixabay